lunedì 10 dicembre 2012

Sabino Cassese ricorda Massimo Severo Giannini.



GIANNINI: LO STUDIOSO E IL SUO TEMPO  

di Sabino Cassese



1. Uno dei maggiori giuristi europei del XX secolo
Uno dei maggiori giuristi europei del XX secolo, Giannini non ha coltivato un solo campo, spaziando dalla teoria del diritto al diritto costituzionale, al diritto amministrativo, al diritto finanziario, a quello tributario. Egli è stato convinto come pochi dell’unità del diritto. Ed ha anzi sostenuto che i cultori di un solo ramo del diritto sono “giuristi di seconda serie”.
Giannini ha sempre riconosciuto grande importanza al ruolo dei giuristi come analisti sociali e come forza razionalizzatrice della società. Pochi come lui sono stati sicuri della bontà del “dictum” schmittiano per cui “un popolo che non ha un ceto di giuristi, non ha alcuna costituzione”1. Nello stesso tempo, aveva forte il convincimento della importanza sociale dei dibattiti sull’organizzazione, per cui questi sono diventati una discussione sulla politica e sulla società e non possono essere lasciati ai soli tecnici dell’organizzazione. Donde il suo continuo discorrere in pubblico, nei convegni, nelle riunioni politiche, nei dibattiti giornalistici, dei temi dello Stato e della società.
Oscillante continuamente tra storicismo e razionalismo, Giannini è stato innanzitutto un realista. Ma un realista molto avvertito metodologicamente, consapevole delle relazioni tra il “donné” e il “construit”, per cui la realtà è sempre legata al nostro sistema concettuale, perché noi riflettiamo sia come le cose sono, sia i nostri interessi e le nostre assunzioni sul modo in cui le cose sono.
Per Giannini, quello del diritto amministrativo era un “difficilissimo mondo”, “irto di distinzioni”. Per questo, cercava sempre il rovescio della medaglia e disistimava i semplificatori.
Studioso prestato alla politica, è stato progettista di molte nuove leggi, consulente ascoltato, legislatore, ed ha aperto una nuova stagione di riforme amministrative. Nel suo pessimismo ha trovato la forza di perseverare e di mantenere un’amara serenità.

2. Una vita tra lo studio e l’impegno civile
I dati essenziali della sua vita sono i seguenti. Nato a Roma nel 1915, si laureò ventunenne, lavorando sotto la guida di Santi Romano e di Guido Zanobini, ma in continuo contatto con gli altri maestri della sua epoca (con il solo Cammeo – come scrisse con rammarico molti anni dopo – ebbe esclusivamente un breve incontro). Nel 1939 era già professore di ruolo, insegnando prima a Sassari, poi a Perugia, a Pisa e, dal 1958, a Roma, dove è andato fuori ruolo nel 1985. Ha tenuto insegnamenti non solo di diritto amministrativo, ma anche di diritto costituzionale, di diritto ecclesiastico, di diritto finanziario e scienza delle finanze, di teoria generale del diritto. E’ morto a Roma nel 2000.
Fu allievo di Santi Romano, a sua volta pupillo di Vittorio Emanuele Orlando. Al primo fu sempre molto legato, personalmente e idealmente. Si può dire, quindi, che sia stato nel “mainstream” della cultura pubblicistica italiana. Ma – come tutti i grandi giuristi, non ètato soltanto allievo di un altro giurista, è anche stato allievo del suo secolo, che ha interpretato e criticato magistralmente.
Ingegno precocissimo, ha pubblicato ben due monografie, su temi importanti come l’interpretazione e la discrezionalità, all’età di ventiquattro anni; alla stessa età ha disegnato il programma della sua ricerca; ventiseienne discuteva con Capograssi e Bobbio sull’interpretazione; appena trentenne era capo di gabinetto di Nenni al Ministero per la costituente.
Autore di non meno di seicento scritti, si è dedicato, in epoche varie della sua vita, a quattro opere generali di diritto amministrativo, le “lezioni” del 1950, quelle del 1960 –1964, il “corso” del 1965, il “diritto amministrativo” del 1970. In questa opere ha abbandonato, anzi superato la tradizionale distinzione tra parte generale e parte speciale della materia, riuscendo a ridare unità ad essa grazie alla inserzione della seconda nella prima, che ne risulta così arricchita.
Sostenitore dapprima della tesi del diritto amministrativo come sistema, è andato via via attenuando e storicizzando questa idea di sistema. Autore della tesi – che ha incontrato un grandissimo successo – del diritto amministrativo come conflitto tra autorità e libertà, ha poi abbandonato questa ricostruzione, riconoscendo che esso è ormai divenuto “corale”.
Oppositore in un primo momento del privatismo portato nello studio del diritto pubblico, si è poi convinto della larga penetrazione del diritto privato e dei suoi moduli nel diritto amministrativo, ciò che richiedeva ai suoi cultori di dotarsi della relativa strumentazione tecnica. Sempre critico della pandettistica (ma con un atteggiamento critico crescente nel tempo), era partito riconoscendo l’esistenza di dogmi atemporali per approdare alla tesi che esistano soltanto invarianti, ovvero concetti che hanno maggior durata di altri, ma pur sempre tratti dall’analisi del diritto positivo.
Formatosi dapprima sugli autori della scuola tedesca – ma non i weimariani, la cui lettura era sconsigliata da Santi Romano – fu uno dei primi a rivolgersi, per lo studio giovanile sul potere discrezionale, alla cultura americana. Sempre in contatto con i maggiori studiosi francesi (fu amico di Rivero, Vedel, Boulouis, Drago, Braibant), fu particolarmente apprezzato ed ascoltato da spagnoli e sud-americani. Fu attivo in quello che era allora un centro vivo di studi giuridici e non giuridici dell’amministrazione, l’Istituto internazionale di scienze amministrative.
Nel 1946, essendo egli iscritto al partito socialista, Pietro Nenni, ministro per la costituente, lo volle suo capo di gabinetto. In tale veste svolse un lavoro essenziale in preparazione della Costituzione. Presentò a Nenni Ugo Forti, maestro napoletano, che venne incaricato di presiedere due commissioni sulla organizzazione dello Stato. Fece tradurre e presentare al pubblico italiano vecchie e nuove costituzioni italiane e straniere. Si valse di Demaria per una commissione economica. Propugnò l’indagine sulla proprietà terriera e quella sui monopoli, poi pubblicata in altra sede per le forti opposizioni che incontrò.
Raccolse intorno al Ministero il fior fiore della scienza giuridica. Elaborò e divulgò idee, e attivò dibattiti intorno alla costituente. Se è vera la frase goethiana per cui, per lasciare un segno nella storia, occorrono una buona testa e poter profittare di una grande eredità, l’ingegno ben applicato e la fucina della preparazione della nuova Italia costituivano ottime premesse.
Non incluso tra i candidati all’Assemblea costituente, con grande rammarico suo e di Costantino Mortati, collaborò all’Industria con Morandi nell’attività legislativa, preparando in particolare il disegno di legge sui consigli di gestione. E divenne suggeritore di Lelio Basso, attivo costituente.
Seguì un periodo di disimpegno, quando gli entusiasmi iniziali scemarono e prevalse la politica di potere; ma intraprese il mestiere di avvocato e non lasciò le vesti di riformatore, specialmente in preparazione delle regioni (prima del 1970) e in attuazione del trasferimento di funzioni ad esse. Fino a quando, nel 1979, fu chiamato al governo come ministro per la funzione pubblica. Dal 1980, con sua grande amarezza, uscì nuovamente di scena. Rimase sempre attivo, fino alla morte, nella proposta e nella critica sui quotidiani, alla radio e alla televisione, tentando anche, negli ultimi anni, con un manipolo di persone di cultura, tra cui Federico Zeri, una sortita politica (battendosi nel 1990 per via referendaria contro la partitocrazia e presentandosi alle elezioni politiche del 1992). La sortita ebbe molta eco, ma fu un insuccesso.

3. Esploratore e geografo.
Giannini ha contribuito a rinnovare molti campi di studio, esplorando terre sconosciute o scarsamente note. A lui si devono le prime analisi e sistemazioni di territori come il controllo del credito, l’impresa pubblica, gli interventi speciali per le aree sottosviluppate, la tutela dell’ambiente, gli ordinamenti sportivi, la protezione sociale, l’assetto della finanza pubblica, le decisioni amministrative, il diritto cosmico, i rapporti tra futurologia e diritto, le clausole costituzionali sul lavoro, i mercati comunali, le certezze pubbliche, l’ordinamento della ricerca scientifica, l’organizzazione turistica.
È stato scopritore inesausto di province inesplorate non solo per naturale curiosità, ma anche per un più profondo motivo, che pose a programma della sua prima prolusione, quella sassarese del 1940. Egli riteneva che la scienza del diritto amministrativo, com’era coltivata dai suoi maestri, fosse rimasta asfittica per deficienza nelle problematiche – come egli scrisse –; cioè perché non aveva voluto aprire gli occhi sull’evoluzione del diritto positivo, specialmente quella degli anni ’30. Di qui l’impulso ad andare a cercare norme, istituti, procedure, a vagliarle, a raffrontare ad esse gli strumenti concettuali, a verificare la forza di questi ultimi, a forgiare nuovi concetti.
Convinto che occorresse “trarre il sistema dal reale” (ma egli stesso nel 1950 attribuiva al suo maestro Romano il merito di aver usato il “metodo della diretta osservazione dei fatti”), non si limitò all’esplorazione, ma fu anche geografo, perché forgiò nuovi paradigmi. Dall’esame della giurisprudenza trasse la conclusione che il potere discrezionale consistesse nella ponderazione di interessi pubblici e privati, così ammettendo la multifinalità dello Stato. A lui si devono – come già notato – le due formule del diritto amministrativo come studio del conflitto autorità – libertà e dell’atto amministrativo come puntualizzazione in un caso concreto dei rapporti autorità – libertà. Più tardi quella, meno incisiva e insufficientemente sviluppata, della “coralità” del diritto amministrativo (con questa egli voleva sottolineare il paradigma multipolare e non antagonistico del “nuovo” diritto amministrativo).
Fu autore della nozione di Stato pluriclasse, caratterizzato dal suffragio universale e dagli istituti di protezione sociale. Applicò la teoria romaniana dell’ordinamento a taluni settori, come quello del credito, parlando di “ordinamenti sezionali”, di cui analizzò i profili costitutivi. Fu tra i primi a discernere, nella congerie degli atti amministrativi, gli atti – provvedimento. Aprì la strada alla riflessione sul pareggiamento del lavoro pubblico e di quello privato (che darà successivamente anche frutti legislativi, anche se non tutti nella direzione indicata da Giannini).
Di altre nozioni, di uso corrente, ridefinì portata e dimensioni. Dette un più rigoroso impianto alla nozione di ordinamento del suo maestro Romano, individuandone i tre elementi costitutivi, organizzazione, pluri-soggettività e normazione. Rivide concetti come quelli di autogoverno, autoamministrazione, decentramento e autonomia, dandone una ridefinizione, che è oggi comunemente accettata.
Ebbe sempre presente l’idea della storicità del diritto e portò nella ricerca giuridica un acuto interesse per la storia, sia quella delle “res gestae”, sia quella delle idee, dedicandosi come pochi alla ricostruzione del passato di istituti (come il Consiglio di Stato, gli interventi nelle aree sottosviluppate, i mercati comunali, l’impiego pubblico), di persone (come Cammeo o Zanobini), di idee (come l’idea di regione).
Fu maestro ineguagliato nell’arte propria dei giuristi di distinguere, classificare, ordinare, nonché in quella di problematizzare. Guardando sempre con occhi nuovi una materia, era capace di farne vedere aspetti fin’allora sconosciuti. Lo soccorsero, in quest’opera ricostruttiva, non solo l’osservazione di realtà nuove e la piena padronanza degli strumenti concettuali del giurista, ma anche la conoscenza delle tecniche delle altre scienze sociali, che egli portava dentro all’analisi giuridica ogni volta che era necessario, convinto che la scienza del diritto “trascrive in ordini giuridici acquisizioni sociologiche” – come ebbe a scrivere –.
Un segno di questa sua capacità di riannodare i fili spezzati della integrazione delle scienze sociali si vede nella sua apertura ad altri lettori: scrisse su “Società”, allora diretta da Carlo Muscetta e Gastone Manacorda, e su “Nord e Sud”, diretta da Francesco Compagna.
Fu tra i primi giuristi della generazione dei maestri a contribuire con i suoi scritti a “Politica del diritto”, diretta da Stefano Rodotà. Collaborò al Movimento Salvemini, specialmente sotto la spinta di Leopoldo Piccardi, che aveva conosciuto da giovane nella biblioteca del Consiglio di Stato.
Grazie agli studi giovanili, aveva una piena padronanza dei tradizionali “ferri del mestiere”. Per la sua inclinazione alla filosofia (ma forse anche per l’insegnamento di Santi Romano, maestro di rigore logico) aveva una forte attitudine raziocinativa. L’esperienza al Ministero per la costituente e quella al Ministero dell’industria gli avevano permesso di acquisire una conoscenza diretta dei congegni amministrativi. Aveva perfezionato e aggiornato quest’ultima con il modo particolarissimo di esercitare l’avvocatura, fornendo consulenza anche su questioni minute ad enti locali, che si rivolgevano a lui proprio per l’attenzione che prestava ad esse. L’abbondanza e varietà di letture gli consentivano di spaziare su altri campi, dai quali amava trarre spunti per tornare al mestiere di giurista ed arricchirlo.
Concorrevano ad attrarre l’interesse del lettore la ricchezza del linguaggio e la qualità della sua prosa, il modo fantasioso con il quale menzionava gli esempi più remoti, che potevano apparire peregrini (ad esempio, evocando il volo di Bleriot sulla Manica in una trattazione sulla sperimentazione scientifica7), sfruttando la sua vasta cultura e le ampie letture, l’abilità di aprire sempre nuove prospettive, l’inventiva, esercitata anche su temi che avrebbero suscitato il rifiuto di altri giuristi (si pensi alle sue esplorazioni della tematica giuridica del diritto cosmico, fatte in un’epoca nella quale l’esplorazione spaziale aveva appena mosso i primi passi).
Non conobbe il “labor limae”, ma non conobbe neppure riposo: la vita è stata per lui il goethiano eterno rotolare di una pietra che ogni volta bisognava andare a riprendere.
Ebbe, in anni giovanili, molta innata dignità, unita a una amabile dolcezza (ma negli anni della tarda maturità le amarezze e la solitudine ne cambiarono il carattere, rendendolo persino irascibile). Fantasia aperta alla verità del reale, quando si affacciò sulla scena precedette il suo tempo, e se lo trascinò dietro. Ebbe avversari, molti per stupidità, altri per invidia, altri ancora per mancanza di successo, pochi per differenza nel modo di pensare.

4. Un figlio della sua epoca.
Giannini ha di gran lunga sopravanzato la sua epoca. Ma è stato, allo stesso tempo figlio di essa. Proprio per questo ha confessato pubblicamente la sua particolare contraddittorietà.
Nessuno come lui ha inserito nello studio del diritto riflessioni di carattere storico, sociologico, politologico, di storia del pensiero. Pochi come lui sono stati convinti della necessaria integrazione delle scienze sociali. Forse unico tra i giuristi della sua generazione, ha sempre studiato anche il modo in cui sono stati analizzati i diversi argomenti, convinto com’era che la vera scienza riflette sempre anche su se stessa.
Eppure, pur varcando continuamente i confini del giuridico in senso stretto, ogni volta li segnava, per sottolineare le differenze e le distanze tra diritto e non diritto. Si rifletteva in questo atteggiamento sia la antica preoccupazione, risalente a Vittorio Emanuele Orlando, per la cosiddetta purezza del metodo giuridico, sia la visione ottocentesca del riparto delle discipline.
Maestro dell’antiformalismo quando dichiarava che occorresse “trarre il sistema dal reale”, ne rimaneva, poi, prigioniero quando si dedicava alle grandi tassonomie, in cui si rivelava la sua anima positivistica, la sua attitudine classificatoria. E questa era accentuata da quell’idea di sistema di cui si è già detto. Un sistema costruito con principi di materia e di settore, per poi passare a principi di vertice, coincidenti con i principi generali del diritto.
Questa concezione gerarchica, che isolava i singoli elementi dai loro contesti, conduceva nuovamente alla posizione solitaria del giurista, lontano dalla realtà e dall’integrazione con le altre scienze sociali.
Se quest’idea di una scienza ben strutturata, ma, al fondo, statica, era temperata in Giannini dalla peculiare attenzione per il diritto positivo e per la realtà effettuale, l’altro “pregiudizio” ottocentesco, quello della dogmatica, ebbe in Giannini – come s’è detto – una evoluzione particolare: partito come sostenitore del metodo giuridico (su cui peraltro espresse sempre critiche, nel senso di dire che esso non era un metodo, ma piuttosto un indirizzo o un programma) e della dogmatica (come insieme di nozioni che prescindono dal dato positivo, atemporali), si convertì più avanti alla tesi della necessaria storicità anche dell’apparato concettuale generale del diritto e preferì parlare piuttosto di invarianti che di dogmi.

5. “Ma tu pigia”: il riformatore.
Giannini ha scritto, in un “cammeo” su Calamandrei, di averlo visitato nel periodo della preparazione della Costituente per averne l’appoggio in vista della futura Costituente. Di averlo poi trovato partecipe delle sue stesse preoccupazioni. E di aver raggiunto con lui un’intesa per rimuovere con la persuasione i fantasmi che si addensavano sulla Costituente. Calamandrei gli raccomandò: “ma tu pigia”. E, dopo il successo del “referendum” gli disse soddisfatto: “vedi che si è pigiato bene”.
In tal senso, poche persone hanno “pigiato” per tutta la loro vita come Giannini. A lui va fatta risalire la paternità di tanta parte della normativa del primo cinquantennio repubblicano, dalla Costituzione alla disciplina delle regioni, dalle norme sui beni culturali (anche se molte proposte furono tradite e i risultati sperati non si videro).
Se si percorrono i suoi scritti, si nota che il suo impegno critico e propositivo è stato almeno pari a quello scientifico – ricostruttivo. Non c’è angolo del diritto costituzionale e amministrativo sul quale non abbia espresso un giudizio, valutato efficacia di norme e istituti, presentato proposte (con particolare attenzione all’ordinamento dello Stato e alla giustizia amministrativa). Questo monumento di giudizi e proposte ha spesso dato frutti concreti, talora è stato dimenticato, frequentemente è stato attuato, ma anche tradito.
Giannini stesso aspirò in tutta la vita ad un impegno più attivo, ma non cercando cariche, bensì non sottraendosi ad esse quando gli venivano proposte, mèmore del detto che esse non si sollecitano, ma non si rifiutano.

6. Il maestro.
Giannini era convinto che da ogni generazione qualcosa passa ad un’altra generazione, talora intatta, talora trasformandosi. Ebbe una scuola, se per questa intendiamo un insieme di allievi, che furono tra loro troppo diversi per avere un comune approccio al sapere. Conobbe la devozione dei discepoli e intorno a lui volti giovanili furono luminosi come le molte luci di un candelabro. Aveva un atteggiamento olimpico, goethiano; non dirigeva i suoi allievi e gli altri numerosi giovani che accorrevano a lui, ma, conoscendo sommamente l’arte del distinguere, trasformava i colloqui in una fitta trama di differenze, nella quale l’interlocutore doveva orientarsi da solo.
Non esercitò, invece, quell’altra arte dei maestri che è l’”ars nesciendi”, del non sapere, del non poter dare un giudizio conclusivo, perché, per preparazione e per natura, era piuttosto un “Besserwisser”, colui che sa sempre tutto meglio.
Pietro Nenni, il 1 luglio 1946, terminata l’esperienza del Ministero per la Costituente, scriveva a Giannini: “Nel prendere congedo da te esprimo il voto che lo Stato repubblicano che sorge possa sempre contare sull’opera tua nell’arduo compito che lo attende di formare una classe dirigente interamente devota agli ideali della democrazia e dell’interesse della Nazione”. Giannini ha adempiuto questo compito, in termini diversi da quelli auspicati dal “leader” socialista, studiando ed educando.
Giannini ha influenzato profondamente la sua epoca, sia come maestro universitario, sia dialogando con l’opinione pubblica in un ambito più vasto, per il suo impegno politico (questo limitato a due periodi brevi, il 1946 – 1947 e il 1979- 1980), per l’attività giornalistica, la presenza nel dibattito pubblico. Ispiratore della Costituzione, è stato in prima linea nella fase del “disgelo” costituzionale, quando si trattò di attuare la carta. Ma ha aperto anche la fase della critica della sua seconda parte, quella relativa all’organizzazione.
Nel campo degli studi, ha aperto nuovi orizzonti, ampliato l’area delle analisi, moltiplicato i punti di vista, invogliato ad usare tecniche nuove. Ha dato un colpo definitivo al formalismo e al concettualismo. Ha indotto i giuristi ad usare strumentari nuovi, quale quello della storia, per uscire dall’astrattismo. Ha convinto i cultori del diritto ad abbandonare la netta separazione tra “jure condito” e “jure condendo”.

Nessun commento:

Posta un commento